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"Come vorrei conoscere qualcosa che tutti ignorano,
vicende che non sono mai state raccontate,
così che io potessi narrarle, accompagnato dalla voce del mio cuore."

(Dalle"Lamentazioni di Khakheperraseneb",
XII dinastia, fine del XIX secolo a.C.)


 
 
 
 
 
 
 
I

La gente che un tempo fece costruire templi e piramidi oggi lavora nei campi. Coloro che traversavano il Fiume sulle grandi barche, dedicate alle divinità, ora sono semplici operai.
 Non si naviga più verso nord, verso Biblo. Non si pensa più ai cedri per le mummie. I cedri con il cui olio furono imbalsamati re e sacerdoti, fino in terre lontanissime.
 Non arrivano più: si è perduta l’antica ricchezza.
 Potrebbe sembrare il diario di un viaggiatore dell’Ottocento, uno di quei signori baffuti che si vedono nelle incisioni di certi vecchi atlanti e che il romanticismo, la nostalgia, se li portavano dietro con l’orologio a cipolla. Sempre così affascinati dal contrasto fra le dimensioni dei colossi del passato e quelle meno superbe della vita degli abitanti.
Invece no. Quel testo risale all’antico Egitto. Si riferisce ad un periodo di disordine politico ed è probabilmente sporco dell’ipocrisia della letteratura di regime, che auspicava il ritorno di un potere forte quale sarebbe stato quello dell’undicesima dinastia. Ma a coloro che guardano a certi momenti storici con gli occhi affascinati ed un brivido d’inspiegabile nostalgia, quasi vedessero la loro infanzia custodita negli scenari di cento o mille anni prima, fa un certo effetto accorgersi che la gente di allora avvertiva lo stesso fascino legato ad un passato un po’ più passato. Finché ti chiedi cos’è che realmente si rincorre. Se l’incapacità di cantare la bellezza dell'oggi non sia qualcosa di genetico, incorreggibile.  Forse lo stesso atto di scrivere, di raccontare, non è che l’ansia di stringere a sé ciò di cui si sta intuendo la scomparsa. L’affanno di un piccolo cortigiano testardo, assediato dalla rivoluzione del tempo, che cerca di portare in salvo quante più ricchezze - memoria - riesce a trasportare.
 Neanch’io posso sottrarmi a questa brutta abitudine. Alle nove e mezza di una serata ventosa, che tormenta i rami degli alberi e i vetri delle imposte, sto nuotando nel disordine di una scrivania, unico essere vivente all’interno dell’Egyptian Museum del Cairo.  Lo schermo del portatile mi trattiene di fronte gli appunti in cui confondo documenta-zioni e ricordi, e leggendo ottusamente pagine che ho ormai corretto e riscritto decine di volte, tento ancora di capire cosa diavolo accadde quella notte: la notte al capezzale di Tutankhamon, il re morente, fra dignitari, sacerdoti, guaritori.
E in questo silenzio di secoli e marmo impolverato, riesco quasi a vederla, la giovane regina, coi suoi occhi stanchi e diffidenti verso un esercito di medici maldestri, di saccenti ruffiani che si muovono nella penombra. E la speranza e la paura mescolarsi al rumore dei sandali che scivolano sul pavimento di granito. E il peso della notte d’inverno rubare alle stanze il sapore lieto di mille ricordi.
Un momento di sconforto disperato che ha l’odore degli un-guenti e dell’inchiostro sulle pareti affumicate dai bracieri. Un momento di smarrimento nel trovarsi, per la prima volta davvero sola, a dover pensare a un dopo. Cosa succederà dopo?
 
 
 

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