Un
archeologo ‘Dietro la sabbia’ Intervista con Augusto Palombini,autore del
nuovo romanzo della collana
‘Gli Emersi’
Intervista di Caterina Aletti
Fotografie di Giovanni Battista Bertolani
Lo incontriamo fra
fotografie di missioni archeologiche fra paesaggi sabbiosi e città
orientali, scaffali zeppi di libri, un computer portatile sepolto da cumuli
di cartelle e fogli. Invece di uno studioso impeccabile, a quella scrivania
è seduto un ventottenne, maniche rimboccate, jeans e barba trascurata.
Un orecchino col simbolo del Tao. Con una battuta distratta, nota che la
vera archeologia è questa: trovare le cose quando servono, nell’oceano
di carta.
Spiega distrattamente qualcosa sulle foto, e
viene inevitabilmente da pensare che l’idea di un romanzo come ‘Dietro
la sabbia’, non poteva che nascere in luoghi simili.
Un romanzo sull’Antico Egitto. Non è
un argomento già molto trattato? E’ ancora possibile dire qualcosa
di interessante?
Intanto il mio non è un libro sull’Egitto.
Lo definirei magari un romanzo sul modo in cui pensiamo il passato e cerchiamo
di capirlo. Anche se la vicenda prende indubbiamente spunto da un episodio
storico, che io considero di estremo interesse.
Poi i libri di tema archeologico generalmente
hanno degli schemi narrativi molto classici, epici: armi e sentimenti,
condottieri eroici ed amori contrastati che alla fine si risolvono felicemente.
Dal punto di vista letterario ho la presunzione di aver provato percorsi
più originali.
E dal punto di vista storico?
E’ soprattutto su questo piano che ho cercato
di fare qualcosa di diverso. Chi fa della ricerca sul passato lavora su
diverse ipotesi, che vanno verificate e suscitano discussioni. Generalmente
i romanzi storici prendono spunto da una di queste ipotesi, magari la più
fantasiosa, e ci costruiscono sopra la vicenda narrativa. Nel mio caso
ho cercato di rendere il lettore partecipe delle diverse ipotesi possibili,
del dibattito, dei metodi per valutarle. E’ come se i personaggi della
storia fluttuassero in una realtà in cui le ricostruzioni sono continuamente
rimesse in discussione, e i passaggi fra passato e presente servono proprio
a questo.
Tu hai lavorato nel deserto del Sahara, ed
hai viaggiato molto in Oriente. E’ normale chiedersi quanto c’è
delle tue esperienze in questo romanzo.
Sicuramente molto, punto dal punto di vista delle
ambientazioni. D’altronde il Sahara, i mercati delle oasi non sono cose
che si scordano facilmente, come i profumi di spezie e di frutta dei vicoli
del Cairo. C’è anche qualche personaggio minore che risente di certe
figure tipiche del mondo orientale. Per quanto riguarda i protagonisti,
invece, mi piace costruire delle figure ‘a tavolino’, funzionali agli obiettivi
della vicenda.
E così veniamo alla vicenda. Perché
il pubblico dovrebbe interessarsi alla storia di questa figura femminile,
una principessa di tremila anni fa?
Anzitutto perché rappresenta un momento
storico oscuro, di cui si sa molto poco, poi perché è una
figura estremamente affascinante e moderna: prestando fede a una certa
documentazione dovremmo pensare che abbia cercato di risolvere un conflitto
secolare con un gesto di pace senza precedenti: offrendo se stessa come
garanzia. E' una vicenda che mi ha davvero appassionato, mentre studiavo
il testo dei pochi frammenti rimasti che ne parlano.
Il libro contiene anche dei brevi passaggi in
caratteri geroglifici, non è un po' azzardato?
Sono frasi molto semplici, e oltre alla traduzione
indico anche la tecnica con cui vanno letti: credo sia un elemento in più
per entrare nel problema.
Come è nata l’idea di questo romanzo,
‘Dietro la Sabbia’?
In un modo particolare: ero tornato da poco dal
mio primo lavoro in Egitto, nel 96, e mi venne l’idea di scrivere un racconto
che dicesse qualcosa sul modo in cui si studia il passato. Per questo costruii
una trama schematica e pensai di ambientarla nella fase successiva alla
morte di Tutankhamon. A quel punto cercai di documentarmi per capire se
l’idea che avevo concepito fosse compatibile con i fatti reali, se non
ci fossero contraddizioni palesi. Così mi accorsi che non solo le
cose erano compatibili, ma c’erano elementi che avrebbero potuto sostenere
quell’ipotesi. Allora iniziai a lavorare documentandomi sistematicamente
e al tempo stesso pensai di inserire nella storia anche quella ricerca
che io stavo compiendo sulla storia stessa. Il romanzo vero e proprio è
nato in quel momento.
Cosa pensi del romanzo storico?
Premesso che non so se questo possa definirsi
un romanzo storico, visto che si svolge prevalentemente ai giorni nostri,
credo che sia uno degli aspetti più complessi dell’universo narrativo,
perché si fonda su una contraddizione: da una parte c’è la
libertà del romanzo, che consente di immaginare qualunque cosa,
dall’altra il dovere di una divulgazione onesta, che dovrebbe impedire
di manipolare i fatti.
E quale soluzione vedi a questo problema?
Secondo me una corretta divulgazione significa
dare un’idea dei problemi, delle diverse letture possibili, e dei metodi
corretti per valutarle, senza spacciare le ipotesi per verità scontata.
Un archeologo che scrive romanzi. Quando sono
nate queste due passioni, e in che modo si conciliano?
All’archeologia pensavo molto da piccolo, poi
per lungo tempo l’ho dimenticata ed è riaffiorata al momento di
iscrivermi all’università. Scrivere credo sia qualcosa di diverso,
come per molti: una sorta di vizio che ci portiamo dietro, e che ha poco
a che vedere con l’indirizzo della propria vita. Trovo difficile immaginare
lo ‘scrittore di mestiere’, anche se indubbiamente ci sono molti illustri
esempi a smentirmi. Credo che nella pagina si riversi ciò che si
raccoglie del vivere quotidiano, e quindi anche della propria dimensione
professionale.
Hai detto ‘per molti’. E’ un argomento interessante:
oggi moltissime persone scrivono, hanno il classico mazzo di fogli sgualciti
nel cassetto, negli uffici delle case editrici arrivano ogni giorno centinaia
di manoscritti. C’è chi sostiene che si scrive più di quanto
si legga.
Non credo che sia così semplice liquidare
il fenomeno. Certamente leggere è importante, spesso si inizia a
scrivere anche per emulare i propri modelli letterari. Ma l'affermazione
che si scrive molto e si legge poco dà una connotazione negativa
al fatto che in molti sentano il bisogno di esprimersi, di raccontare qualcosa.
Su questo non sono assolutamente d’accordo.
Eppure, di giovani autori validi se ne vedono
pochi.
Credo dipenda da vari motivi. Un po’ dalle politiche
assai discutibili di certe case editrici, un po’ dal fatto che effettivamente
molti autori non riescono a superare la fase ‘narcisistica’ dello scrivere,
a raggiungere la capacità di trasformare la propria esperienza in
qualcosa di condivisibile con altri. Ma soprattutto penso che manchi la
consapevolezza dei meccanismi di comunicazione che oggi dominano il mercato,
e che non si possono ignorare.
Cosa intendi esattamente?
Che in molti sarebbero disposti a chissà
cosa per un momento di notorietà, ma quasi nessuno lavora con la
consapevolezza dei meccanismi dell’industria di comunicazione, o cerca
di capirli. Conoscere il proprio pubblico potenziale e tenerne conto
non vuol dire produrre lavori dozzinali. Basti pensare a casi come Dumas
o Balzac, o ai grandi musicisti del melodramma: scrivevano per un mercato
preciso, e hanno concepito dei capolavori.
Hai detto che spesso si inizia a scrivere
per emulare i propri modelli, quali sono stati e quali sono i tuoi?
E’ difficile rispondere a queste domande, perché
non si tratta soltanto di scrittori, ma anche di poeti, cantautori o registi,
come credo che sia inevitabile per tutti quelli della mia età. In
generale amo una certa narrazione affabulatoria, che può andare
dalla novellistica orientale, a Marquez, a Calvino, tanto per fare dei
nomi, ma anche ad autori come Gogol o Bulgakov. Poi, soprattutto per questo
romanzo, credo abbia avuto un peso la narrativa di Eco, quella capacità
di giocare con la trama e la documentazione bibliografica.
E’ una domanda ‘classica’: ognuno di noi ha
un suo 'libro prediletto'. Qual’è il tuo, e perché?
Senza dubbio ‘Il Conte di Montecristo’. Nonostante
le critiche rivolte alla letteratura d’appendice, è il romanzo in
cui ho trovato l’espressione più completa del rapporto umano con
i diversi nodi dell’esistenza: il rapporto con la morte, con Dio, se stessi,
l’amore, la giustizia, la sofferenza.
L’archeologia e l’antico Egitto in particolare
sono argomenti che appassionano molto il pubblico, soprattutto negli ultimi
anni. Tu come spiegheresti questo tipo di fenomeno?
Per quanto riguarda l’Egitto credo che la cosa
abbia a che vedere con certe suggestioni un po’ macabre o ‘pulp’, se vogliamo,
legate alle mummie. Il fenomeno non nasce negli ultimi anni: esisteva già
all’epoca del tardo Impero Romano, come raccontano Apuleio e Antonio
Diogene. Rinacque nel Rinascimento, e si rinnovò poi con i tentativi
di Kircher di decifrare i geroglifici, e soprattutto con la spedizione
napoleonica in Egitto. La cosa è paradossale, sai: ciò che
per noi è macabro per gli egiziani era gioioso. Voglio dire che
imbalsamare i corpi era un modo per consentire loro di continuare a vivere,
a divertirsi. L’istituzione che se ne occupava era chiamata ‘Casa della
vita’.
In sintesi, se dovessi indicare un motivo
per leggere ‘Dietro la sabbia’, su cosa ti soffermeresti?
Beh, posso affermare che la storia è interessante
e basata su documenti reali, e al tempo stesso consente di capire qualcosa
in più dei problemi e del modo in cui si lavora sul passato. Comunque
un romanzo si legge se è avvincente, e spero che lo sia per il pubblico
quanto lo è stato per me, studiando i documenti che parlano di questa
vicenda, e poi raccontandola.
Sono ottimista: gli amici che hanno letto il
libro per primi lo hanno divorato senza pause.