(Intervista pubblicata sulla rivista Orizzonti, febbraio 2000)
 

Un archeologo ‘Dietro la sabbia’ Intervista con Augusto Palombini,autore del nuovo romanzo della collana
‘Gli Emersi’

Intervista di  Caterina Aletti
Fotografie di Giovanni Battista Bertolani
 

  Lo incontriamo fra fotografie di missioni archeologiche fra paesaggi sabbiosi e città orientali, scaffali zeppi di libri, un computer portatile sepolto da cumuli di cartelle e fogli. Invece di uno studioso impeccabile, a quella scrivania è seduto un ventottenne, maniche rimboccate, jeans e barba trascurata. Un orecchino col simbolo del Tao. Con una battuta distratta, nota che la vera archeologia è questa: trovare le cose quando servono, nell’oceano di carta.
Spiega distrattamente qualcosa sulle foto, e viene inevitabilmente da pensare che l’idea di un romanzo come ‘Dietro la sabbia’, non poteva che nascere in luoghi simili.
Un romanzo sull’Antico Egitto. Non è un argomento già molto trattato? E’ ancora possibile dire qualcosa di interessante?
Intanto il mio non è un libro sull’Egitto. Lo definirei magari un romanzo sul modo in cui pensiamo il passato e cerchiamo di capirlo. Anche se la vicenda prende indubbiamente spunto da un episodio storico, che io considero di estremo interesse.
Poi i libri di tema archeologico generalmente hanno degli schemi narrativi molto classici, epici: armi e sentimenti, condottieri eroici ed amori contrastati che alla fine si risolvono felicemente. Dal punto di vista letterario ho la presunzione di aver provato percorsi più originali.
E dal punto di vista storico?
E’ soprattutto su questo piano che ho cercato di fare qualcosa di diverso. Chi fa della ricerca sul passato lavora su diverse ipotesi, che vanno verificate e suscitano discussioni. Generalmente i romanzi storici prendono spunto da una di queste ipotesi, magari la più fantasiosa, e ci costruiscono sopra la vicenda narrativa. Nel mio caso ho cercato di rendere il lettore partecipe delle diverse ipotesi possibili, del dibattito, dei metodi per valutarle. E’ come se i personaggi della storia fluttuassero in una realtà in cui le ricostruzioni sono continuamente rimesse in discussione, e i passaggi fra passato e presente servono proprio a questo.
Tu hai lavorato nel deserto del Sahara, ed hai viaggiato molto in Oriente.  E’ normale chiedersi quanto c’è delle tue esperienze in questo romanzo.
Sicuramente molto, punto dal punto di vista delle ambientazioni. D’altronde il Sahara, i mercati delle oasi non sono cose che si scordano facilmente, come i profumi di spezie e di frutta dei vicoli del Cairo. C’è anche qualche personaggio minore che risente di certe figure tipiche del mondo orientale. Per quanto riguarda i protagonisti, invece, mi piace costruire delle figure ‘a tavolino’, funzionali agli obiettivi della vicenda.
E così veniamo alla vicenda. Perché il pubblico dovrebbe interessarsi alla storia di questa figura femminile, una principessa di tremila anni fa?
Anzitutto perché rappresenta un momento storico oscuro, di cui si sa molto poco, poi perché è una figura estremamente affascinante e moderna: prestando fede a una certa documentazione dovremmo pensare che abbia cercato di risolvere un conflitto secolare con un gesto di pace senza precedenti: offrendo se stessa come garanzia. E' una vicenda che mi ha davvero appassionato, mentre studiavo il testo dei pochi frammenti rimasti che ne parlano.
Il libro contiene anche dei brevi passaggi in caratteri geroglifici, non è un po' azzardato?
Sono frasi molto semplici, e oltre alla traduzione indico anche la tecnica con cui vanno letti: credo sia un elemento in più per entrare nel problema.
Come è nata l’idea di questo romanzo, ‘Dietro la Sabbia’?
In un modo particolare: ero tornato da poco dal mio primo lavoro in Egitto, nel 96, e mi venne l’idea di scrivere un racconto che dicesse qualcosa sul modo in cui si studia il passato. Per questo costruii una trama schematica e pensai di ambientarla nella fase successiva alla morte di Tutankhamon. A quel punto cercai di documentarmi per capire se l’idea che avevo concepito fosse compatibile con i fatti reali, se non ci fossero contraddizioni palesi. Così mi accorsi che non solo le cose erano compatibili, ma c’erano elementi che avrebbero potuto sostenere quell’ipotesi. Allora iniziai a lavorare documentandomi sistematicamente e al tempo stesso pensai di inserire nella storia anche quella ricerca che io stavo compiendo sulla storia stessa. Il romanzo vero e proprio è nato in quel momento.
Cosa pensi del romanzo storico?
Premesso che non so se questo possa definirsi un romanzo storico, visto che si svolge prevalentemente ai giorni nostri, credo che sia uno degli aspetti più complessi dell’universo narrativo, perché si fonda su una contraddizione: da una parte c’è la libertà del romanzo, che consente di immaginare qualunque cosa, dall’altra il dovere di una divulgazione onesta, che dovrebbe impedire di manipolare i fatti.
E quale soluzione vedi a questo problema?
Secondo me una corretta divulgazione significa dare un’idea dei problemi, delle diverse letture possibili, e dei metodi corretti per valutarle, senza spacciare le ipotesi per verità scontata.
Un archeologo che scrive romanzi. Quando sono nate queste due passioni, e in che modo si conciliano?
All’archeologia pensavo molto da piccolo, poi per lungo tempo l’ho dimenticata ed è riaffiorata al momento di iscrivermi all’università. Scrivere credo sia qualcosa di diverso, come per molti: una sorta di vizio che ci portiamo dietro, e che ha poco a che vedere con l’indirizzo della propria vita. Trovo difficile immaginare lo ‘scrittore di mestiere’, anche se indubbiamente ci sono molti illustri esempi a smentirmi. Credo che nella pagina si riversi ciò che si raccoglie del vivere quotidiano, e quindi anche della propria dimensione professionale.
Hai detto ‘per molti’. E’ un argomento interessante: oggi moltissime persone scrivono, hanno il classico mazzo di fogli sgualciti nel cassetto, negli uffici delle case editrici arrivano ogni giorno centinaia di manoscritti. C’è chi sostiene che si scrive più di quanto si legga.
Non credo che sia così semplice liquidare il fenomeno. Certamente leggere è importante, spesso si inizia a scrivere anche per emulare i propri modelli letterari. Ma l'affermazione che si scrive molto e si legge poco dà una connotazione negativa al fatto che in molti sentano il bisogno di esprimersi, di raccontare qualcosa. Su questo non sono assolutamente d’accordo.
Eppure, di giovani autori validi se ne vedono pochi.
Credo dipenda da vari motivi. Un po’ dalle politiche assai discutibili di certe case editrici, un po’ dal fatto che effettivamente molti autori non riescono a superare la fase ‘narcisistica’ dello scrivere, a raggiungere la capacità di trasformare la propria esperienza in qualcosa di condivisibile con altri. Ma soprattutto penso che manchi la consapevolezza dei meccanismi di comunicazione che oggi dominano il mercato, e che non si possono ignorare.
Cosa intendi esattamente?
Che in molti sarebbero disposti a chissà cosa per un momento di notorietà, ma quasi nessuno lavora con la consapevolezza dei meccanismi dell’industria di comunicazione, o cerca di capirli. Conoscere il proprio pubblico potenziale e tenerne conto  non vuol dire produrre lavori dozzinali. Basti pensare a casi come Dumas o Balzac, o ai grandi musicisti del melodramma: scrivevano per un mercato preciso, e hanno concepito dei capolavori.
Hai detto che spesso si inizia a scrivere per emulare i propri modelli, quali sono stati e quali sono i tuoi?
E’ difficile rispondere a queste domande, perché non si tratta soltanto di scrittori, ma anche di poeti, cantautori o registi, come credo che sia inevitabile per tutti quelli della mia età. In generale amo una certa narrazione affabulatoria, che può andare dalla novellistica orientale, a Marquez, a Calvino, tanto per fare dei nomi, ma anche ad autori come Gogol o Bulgakov. Poi, soprattutto per questo romanzo,  credo abbia avuto un peso la narrativa di Eco, quella capacità di giocare con la trama e la documentazione bibliografica.
E’ una domanda ‘classica’: ognuno di noi ha un suo 'libro prediletto'. Qual’è il tuo, e perché?
Senza dubbio ‘Il Conte di Montecristo’. Nonostante le critiche rivolte alla letteratura d’appendice, è il romanzo in cui ho trovato l’espressione più completa del rapporto umano con i diversi nodi dell’esistenza: il rapporto con la morte, con Dio, se stessi, l’amore, la giustizia, la sofferenza.
L’archeologia e l’antico Egitto in particolare sono argomenti che appassionano molto il pubblico, soprattutto negli ultimi anni. Tu come spiegheresti questo tipo di fenomeno?
Per quanto riguarda l’Egitto credo che la cosa abbia a che vedere con certe suggestioni un po’ macabre o ‘pulp’, se vogliamo, legate alle mummie. Il fenomeno non nasce negli ultimi anni: esisteva già all’epoca del tardo Impero Romano,  come raccontano Apuleio e Antonio Diogene. Rinacque nel Rinascimento, e si rinnovò poi con i tentativi di Kircher di decifrare i geroglifici, e soprattutto con la spedizione napoleonica in Egitto. La cosa è paradossale, sai: ciò che per noi è macabro per gli egiziani era gioioso. Voglio dire che imbalsamare i corpi era un modo per consentire loro di continuare a vivere, a divertirsi. L’istituzione che se ne occupava era chiamata ‘Casa della vita’.
In sintesi, se dovessi indicare un motivo per leggere ‘Dietro la sabbia’, su cosa ti soffermeresti?
Beh, posso affermare che la storia è interessante e basata su documenti reali, e al tempo stesso consente di capire qualcosa in più dei problemi e del modo in cui si lavora sul passato. Comunque un romanzo si legge se è avvincente, e spero che lo sia per il pubblico quanto lo è stato per me, studiando i documenti che parlano di questa vicenda, e poi raccontandola.
Sono ottimista: gli amici che hanno letto il libro per primi lo hanno divorato senza pause.